Lo Spazzasuoni – Suono uno

ispirato all’omonimo racconto di J. G. Ballard

testo Tuccio Guicciardini
in collaborazione con Carla Tatò
mise en espace e progetto Tuccio Guicciardini, Patrizia de Bari, Andrea Montagnani
produzione Giardino Chiuso/Orizzonti Verticali

Lo Spazzasuoni è ispirato all’omonimo racconto di J.G.  Ballard, ambientato in un futuro distopico dove la tecnologia  prende il sopravvento sulle qualità umane e si traduce in uno  scontro tra il passato, presente e futuro. Il decadimento di  una generazione ne partorisce una nuova che non riconosce e  fagocita la prima, senza rimorsi, senza riconoscenza. Due  pensieri che discutono animatamente tra loro, consapevoli  della ineluttabile conclusione della querelle. Siamo in un mondo in cui la musica, la voce recitata, per come le conosciamo adesso, non esistono più: si ascolta ora, in maniera inconscia,  attraverso una tecnica ultrasonica, e il suono rimane intriso nelle stanze dove viene ascoltato; motivo per cui viene istituita  una figura di “pulitore”, lo spazzasuoni. Un’attrice, Madame  Gioconda, devastata dalla fine della sua carriera e dalle droghe, tenterà una sfiancante e effimera difesa dei suoni, della  musica, del pensiero e della scrittura espressa vocalmente, dell’arte “sporcata” dall’esuberanza dei vizi acustici quotidiani e inaspettati ma quindi viva e irripetibile. La nostra Madame Gioconda si nasconde in un rifugio sotterraneo dove i suoni le sembrano protetti, e incessantemente tenterà di  replicarli all’infinito; sono suoni pieni di sporcature che si  depositano nelle intersezioni del muro, in ogni crepa, in  ogni angolo. L’arrivo dello spazzasuoni metterà tutto il suo  sforzo in pericolo, tutto rischia di essere ripulito,  sterilizzato. Una lotta impari, un destino già scritto?

«Verso mezzanotte l’emicrania di Madame Gioconda si era fatta violenta. Per tutto il giorno le pareti e il soffitto della sala acustica abbandonata avevano echeggiato dell’incessante frastuono del traffico centro cittadino sfrecciante sul viadotto che s’inarcava quindici metri sopra il tetto dello studio, una spasmodica forsennata babele di clacson scalpitanti,  pneumatici stridenti, frenate laceranti e motori rombanti che tempestava lungo le scale e i corridoi deserti sino a inondare la sala acustica al secondo piano, appesantendo e inasprendo l’aria avvizzita. Snervanti ma per lo meno impersonali, erano suoni che Madame Gioconda poteva tollerare. Al crepuscolo, però, quando il viadotto s’ammansì, vennero soverchiati dai misteriosi battimani dei suoi fantasmi, l’applauso d’indefinita provenienza che stormiva sul palcoscenico scaturendo dalle  tenebre circostanti.

Nato dalle prime file come uno sporadico sfarfallio si propagò  in fretta a tutta la sala gonfiandosi a una tumultuosa ovazione in cui lei sorprese d’improvviso una nota di sarcasmo, uno specifico mugghio di scherno che le conficcò in fronte un  aculeo lancinante, seguito da un uragano di fischi e sberleffi che saturarono l’aria torturata ricacciandola verso il divano dove lei giacque boccheggiando sgomenta, finché a mezzanotte non giunse Mangon a precipitarsi sul palcoscenico  con l’aspirasuoni».

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